La crisi odierna, più ancora di quella del 2008, ci pone di fronte alla sfida di ripensare il futuro. Questo strano virus rende evidente a tutti (chi per lavoro studia già lo sapeva) che la realtà non la conosciamo tutta, che nella ricerca non siamo ancora arrivati, e che mai lo saremo. Ci è chiesto di cercare ancora, di scoprire ancora, e questo dove accade se non nelle nostre università? E poi: quale contesto, più che quello universitario, sa elaborare criticamente tutto il valore che ci viene dalla tradizione del sapere, per metterlo in dialogo, in uno scambio quotidiano tra docenti e studenti, con le sfide del presente?
Da dove ci attendiamo le energie per ricostruire la società, l’economia, la cultura di domani, se non da quei quasi due milioni di giovani che popolano oggi le nostre università? Sono loro che andranno nelle scuole a educare i nostri figli, sono loro che raccoglieranno le sfide a cui ci convoca il nostro tempo.
Nessun investimento è più garantito che quelli fatti in università e ricerca. Certo: magari non nel computo del Pil del prossimo semestre, ma tra uno, cinque, dieci anni. Ma se non recuperiamo una prospettiva di intervento che supera la logica del consenso immediato – e non parlo solo dell’ambito della formazione – credo che continueremo a tentare di arginare il crollo di una diga infranta: ogni misura sarà sempre parziale, sempre troppo poco.
Certo non è questa la terapia per tutti i mali, ma, nella confusione generale, non è poco poter dire: “ecco, anche da qui si può ricominciare a costruire”.
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